Arrivano i dollari. Si disse questo, anno di grazia 2011, quando la bandiera a stella e strisce fu issata a fianco di quella della Roma su uno dei pennoni di Trigoria. Sì, si disse proprio così, parafrasando il celeberrimo film con Alberto Sordi che al solo pensiero è capace di strapparci ancora irrefrenabili risate. Lo si disse pensando non solo alla questione tecnica, quanto se non soprattutto all’aspetto commerciale dell’azienda Roma. Quello che in sintesi i born in Usa chiamano business. Quello in cui gli american boys (pure se cresciutelli) ci hanno sempre raccontato essere i migliori, i più bravi, quelli capaci di tirare fuori utili da qualsiasi azienda prendessero in mano.
Non è stato così. Prima Pallotta and partners, poi la famiglia Friedkin, da questo punto di vista tutto hanno fatto meno che dimostrarsi di successo. Basta guardare, in questi quasi quindici anni, la storia di sponsor e dintorni per certificare la bocciatura del settore commerciale. Nonostante i ripetuti cambi al vertice, tutti presentati con lustrini e ricchi (per loro) cotillons, al motto il nuovo numero uno è un visionario in grado di garantire quell’aumento del fatturato che è fondamentale per le casse della società, le sponsorizzazioni sono state quasi un’eccezione che ha confermato la regola di una maglia nuda (che poi a noi piace pure di più così, ma nel calcio di oggi è un autogol economico). Come sta accadendo in questa stagione. Anche se da qualche mese sulla poltrona di dirigente apicale si è seduto Michael Gandler (un passato anche l’Inter), ennesimo visionario del nulla. Invece: niente main sponsor, niente griffe sulla manica anche se c’è stato garantito che a breve ci sarà l’annuncio per uno sponsor da piazzare sulla manica. Al momento sulla nostra amata maglia c’è solo il back sponsor che poi altri non è che Auberge Resorts, ovvero il prestigioso marchio del lusso turistico della famiglia Friedkin. Insomma, roba di famiglia. É solo l’ultima cartolina di quindici anni in cui per quasi tre stagioni come main sponsor c’è stata Qatar Airlines e per due quel Riyadh Season che è stata la cosa migliore, se non l’unica, fatta dall’ex ad Lina Soulouku. Per il resto quell’auspicato aumento del fatturato che gli americani hanno sempre messo al primo posto nel loro progetto aziendale, è ormai ai confini del flop. Con tutte le conseguenze del caso, soprattutto in una stagione come questa dove c’è necessità di incassare per cercare di risolvere definitivamente quel settlement agreement con l’UEFA che da troppe stagioni è una palla al piede anche al solo pensiero di fare investimenti.
Come è potuto succedere tutto questo? Quando lo abbiamo domandato, la risposta che c’è stata sempre fornita, è che l’attuale proprietà della Roma chiede cifre fuori mercato. In particolare in questo periodo, ovvero alla vigilia della maglia del centenario (per carità, sacra), quando a un’azienda interessata a fare da main sponsor vengono chiesti venticinque milioni di euro. Sia chiaro, per chi scrive, la maglia della Roma vale il PIL mondiale, ma cinquanta milioni per due anni (tempo minimo perché una sponsorizzazione abbia un senso) gli esperti del settore ci dicono siano assolutamente fuori mercato.
Non sarà il caso, allora, che si facciano i conti con la realtà per cercare di garantire alla Roma un aumento del fatturato? Agli american boys la neppure troppo ardua risposta.
