A cura di Diego Sarti
Una rivoluzione che nasce aldilà delle luci dei riflettori. Alcune germogliano nelle stanze in penombra, tra il profumo di cera e il ritmo lento delle messe. Inusuale come cosa, il che la rende ancor più affascinante. La storia del Celtic comincia così: non con un investitore spettacolare né con un brindisi in tribuna reale, ma in una sala parrocchiale, dove un prete irlandese decise che il calcio poteva essere più di uno spettacolo. Poteva essere la mano tesa che dà da mangiare. Brother Walfrid fondò il club per nutrire i bambini della comunità, nel cuore di una Glasgow industriale che inghiottiva vite e speranze. Il 28 maggio 1888, su un classico campo ruvido di terra scozzese, il Celtic giocò la sua prima partita e vinse: un gesto semplice che si trasformò, nel corso dei decenni, in una bandiera. Anno dopo anno il Celtic continua a crescere e quando arriva Jock Stein la storia prende il volo epico. Tra il 1966 e il 1974 il Celtic non vince soltanto trofei (per 9 anni consecutivi vince il titolo di Scozia): forgia un’idea di calcio popolare che conquista l’Europa. Il 25 maggio 1967, a Lisbona, l’apice più alto del Celtic fino a quel momento. Undici giocatori nati a poche decine di chilometri da Celtic Park battono 2-1 l’Inter vincendo la Coppa dei Campioni: la storia è stata scritta, un ricordo che rimarrà indelebile per sempre.
Oggi il Celtic è quello stesso organismo: identitario, caparbio, abituato a trasformare il sociale in squadra. Ma il presente è fluido. L’era Rodgers si è chiusa in un autunno di tensioni e discussioni, l’interregno di Martin O’Neill ha ridato fiato e visione immediata, e adesso la nuova pagina porta il nome di Wilfried Nancy. Un tecnico proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico, con una carriera che ha spostato confini in MLS e che ora arriva a Parkhead con un contratto di due anni e mezzo e una sfida colossale: mettere in forma, in poco tempo, una squadra che ha carotato identità e aspettative. Il battesimo non è stato tenero: debutto in campionato contro gli Hearts e sconfitta per 2-1, partita che ha mostrato tanto entusiasmo tattico quanto lacune di sincronismo. Nancy porta con sé un’impronta precisa: ampiezza, costruzione dal basso, occupazioni avanzate e un 3-4-3 che in possesso spesso si trasforma in 3-2-5 con concetti che richiedono tempo per diventare automatismi. Ma il calendario non aspetta: impegni di campionato, coppe domestiche e l’Europa alle porte impongono risposte rapide.
L’idea di gioco di Nancy
Non chiamatelo solo “modulo”: la cifra di Nancy è concettuale. Il 3-4-3 che propone è prima un’idea di spazi che una disposizione numerica. I tre centrali devono avere piedi e letture, i mediani lavorare come box-midfield che alternano sostegno e penetrazione, i quinti allargare e la coppia d’attacco muoversi per occupare gli interstizi. In fase di pressing l’intento è riaggressione alta, orientata sul lato, per costringere l’avversario a soluzioni lunghe. Quando la costruzione fallisce, il piano B è rapido: ridurre e cercare un cambio di ritmo che spezzi le linee. È un calcio di intelligenza e rischi, bello se eseguito, pericoloso se sbagliato.
L’appuntamento immediato
Giovedì la Roma si troverà davanti un Celtic che vuole regalare a Nancy la prima grande notte europea a Parkhead. “The Paradise”, come lo chiamano i tifosi, è uno stadio che vive di suono e presenza: quando respira, trascina. Il pubblico sarà all’inglese, compatto, pronto a trasformare ogni minuto in un atto di fede. Il Celtic arriva alla sfida in piena zona playoff con 7 punti e reduce da una vittoria convincente contro il Feyenoord. Ma le assenze pesano: mancheranno Carter-Vickers, operato al tendine d’Achille, così come i terzini Saracchi e Johnston. La difesa dovrà essere reinventata, mentre una buona notizia arriva dall’attacco con il rientro di Iheanacho. La qualità della rosa resta comunque evidente: Tierney, Maeda, il giovane Engels. È una squadra che può creare problemi alla Roma soprattutto in ampiezza, nelle transizioni e nelle zone di rifinitura. Il Celtic di Nancy vive lo stesso paradosso dei suoi inizi: deve rinascere mentre tutti lo osservano. Non è soltanto una questione di aggiustare meccanismi, ma di riallineare un’identità che pretende coerenza tra ciò che si vede in campo e ciò che si sente nella comunità. Giovedì la Roma affronterà undici giocatori, certo; ma soprattutto un’idea che dal 1888 continua a trasformare una città in squadra.
